Valentina Cameli e La Pazzia

Questo progetto di Valentina Cameli  si ispira al romanzo di Mario Tobino “Le libere donne di Magliano”  e  ha preso corpo durante una visita all’ex manicomio di Volterra.

 

“Ogni creatura umana ha la sua legge; se non la sappiamo distinguere chiniamo il capo invece di alzarlo nella superbia; è stolto crederci superiori perché una persona si muove percossa da leggi a noi ignote. “

” I matti non hanno né passato né futuro, ignorano la storia, sono soltanto momentanei, attori del loro delirio che ogni secondo detta, ogni secondo muore.”

“La Pazzia è ritornata ad avvertire che in ogni grano di manicomio essa è la padrona, la Pazzia che tutto vola ridendo in inconcepibile anarchia.”

Mario Tobino (Le donne di Magliano)

 

“E questa malattia è un tal mistero che io ne vorrei fuggire, che ormai è molti anni che la guardo” (p.117). La pazzia è la vera dominatrice del manicomio, le sue urla costituiscono spesso il sottofondo alla scrittura di Tobino, che vive lì, in un isolamento quasi monastico, circondato dalle malate – alcune tra le “tranquille” si dedicano con amorevole dedizione al “servizio medici” – dalle infermiere, da diafane e misteriose suore, che a una certa ora della sera si ritirano tutte nel loro dormitorio per ricomparire con i loro grandi copricapi inamidati il mattino dopo, pronte al lavoro.

Le condizioni delle malate sono terribili, la pazzia non conosce cure precise e i deliri erompono in tutta la loro forza, trattenute da mura potenti, da inferriate, chiavistelli, vetri molto spessi. Tobino non parla di altri mezzi di contenzione e solo una volta accenna di sfuggita all’elettrochoc, che pure era praticato. Il manicomio è un luogo di reclusione nel quale si arginano almeno i danni sociali della malattia mentale, le si impedisce di venire a contatto con il resto del mondo. Le malate sono divise in categorie, le più tranquille possono svolgere piccole attività, hanno i loro momenti d’aria nel cortile; le agitate, nelle fasi peggiori, vivono rinchiuse in celle dalle pareti nude, con una porta robusta dotata di uno spioncino di vetro spesso. La finestra, nei casi più pericolosi, è posta molto in alto cosicché neppure saltando ci si arriva e comunque il davanzale è inclinato. Da un rettangolo traforato e coperto di griglia, vicino al pavimento, proviene l’aria calda del termosifone. La malata è nuda, se non dimostra la tendenza a stracciare tutto, le vengono dati il materasso e la coperta, altrimenti la si tiene “nuda all’alga”, le viene cioè posto nella cella un mucchietto di alghe particolari, dalle lunghe ciglia, che opportunamente seccate hanno il potere di emanare calore come una coperta, sono lavabili, non prendono fuoco. Per tutto il tempo necessario l’alga costituirà la coperta e il vestito dell’ammalata, libera di gridare, strappare, agitarsi. I pazzi sono “furenti sacerdoti di ciò che la loro stessa mente sprigiona”.

Sono i ritratti di queste donne che Tobino ci offre, donne spesso preda di catatonie inviolabili, schizofrenia, manie, deliri erotici. Sono scarmigliate, vestite con la divisa del manicomio, senza belletti, senza orpelli, eppure Tobino coglie in loro squarci di bellezza straordinaria, ne intuisce le storie, i pensieri, posa su di loro uno sguardo di fraternità, che non lo lascia immune dalla sofferenza.